sabato 1 dicembre 2007

Our favourite Coltrane (John Coltrane)


"Il jazz, ...., è un'espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C'è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra."
John Coltrane

Questo disco non fa parte, come numerosi altri album di questo musicista editi negli ultimi 30/40 anni, della discografia classica di Coltrane.
Il suo titolo, a mio avviso molto azzeccato, fa riferimento ad uno dei capisaldi della musica jazz nel suo complesso: "My favourite things", un classico del repertorio dello stesso Coltrane.
Una operazione commerciale, dunque, ma anche intrinsicamente una operazione con una certa valenza culturale che ha per obiettivo quello di riproporre ad un pubblico più vasto, possibilmente anche giovanile, l'ascolto della migliore produzione musicale di uno dei più grandi (per me il più grande) musicisti di jazz mai esistiti.
E questo tipo di operazioni è tanto più importante in quanto il jazz, (e lo dico da vero appassionato di questo genere musicale) non gode obiettivamente di un buono stato di salute.
Tante e complesse sono le ragioni di questa crisi: potrei citare, ad esempio, l'inadeguato ricambio generazionle dei musicisti che lo interpretano o le "esigenze" commerciali che rendono meno appetibile alle case discografiche la promozione di questo genere musicale.
Queste, però, non costituiscono altro che la fenomologia di questo processo: alla base della crisi, a mio avviso, ci sono ragioni "interne" al jazz stesso, che si è sempre storicamente caratterizzato come stile musicale "vivo" e capace continuamente di rinnovarsi stilisticamente in rapporto ai mutamenti storici e sociali.
Ma andiamo con ordine e facciamo un ragionamento un po' più analitico.
La storia del jazz, almeno nelle sue stagioni più vitali, è un'epopea tragica ed eroica alla stesso tempo, fatta di sofferenze, discriminazioni razziali, tossicodipendenze e morti in giovane età, ma allo stesso tempo impregnata di allegria, gioia di vivere, passione, spiritualità, protesta, rivolta, impegno civile e politico, riscatto sociale, incontro di culture e razze diverse.
Il jazz, come in Europa la musica sinfonica e operistica del 700/800, è stato essenzialmente "musica popolare" nel senso più alto del termine, testimonianza e specchio di fermenti, gusti e aspirazioni di un'epoca e di un popolo.
Nato ed evolutosi dall'incontro della tradizione afro dei neri d'America (blues, boogie, spiritual e poi rithim and blues) con la cultura musicale occidentale (nel senso della melodia, dell'armonia e dello strumentario), il jazz si caratterizza per tre elementi fondamentali:
- il tempo musicale, definito semplicemente con la parola "swing"
- la spontaneità della sua esecuzione, in cui l'improvvisazione ha un ruolo di primissimo piano
- il modo di fraseggiare e di formare il suono del tutto originali.
(Spero mi perdoneranno i cultori del jazz per questa estrema banalizzazione degli elementi principali di questo genere musicale).
Tutta l'evoluzione stilistica del jazz si basa sulla mescolanza e sul rapporto di questi tre elementi e sul porre accenti diversi a ciascuno di essi: dagli incerti primordi del ragtime, al dixieland, allo swing, al bebop, al cool, all'hard bop fino al free jazz, le caratteristiche fondamentali di fondo del jazz rimangono sostanzialmente immutate pur modificandosi stilisticamente in maniera marcata.
Così come per la musica classica europea agli inizi del novecento, così per il jazz dalla fine degli anni '60 e i primi anni '70 il legame che univa il popolo nero-americano a questo genere musicale si è progressivamente e forse definitivamente allentato e spento.
Non è questo forse il luogo per analizzare le cause sociali e culturali di questo processo, ma in breve si può dire che si è verificato quello che i sociologi definiscono "il riflusso": giunto forse all'apice della propria evoluzione (ad un punto che molti definiscono di "non ritorno"), il jazz non ha saputo più evolversi e trovare nuovi stimoli ed innovazioni stilistiche (a meno di non considerare tali i tentativi di "fusion" che si sono alternati negli anni '70 e '80, con esiti obiettivamente "sterili"). Le nuove generazioni dei neri d'America hanno seguito nuove culture musicali: da un lato le tipiche strade del disimpegno, di cui la "disco music" degli anni ottanta è forse l'emblema musicale più significativo, dall'altro vie caratterizzate da ribellismo (se non proprio da comportamenti francamente antisociali), di cui il rap è solo una delle tante espressioni culturali.
Certo il jazz si esegue ancora, come del resto si eseguono ancora le opere e le sinfonie classiche dei musicisti del passato, ma ormai è un genere musicale del tutto slegato dai processi che percorrono la società contemporanea: come la musica classica, adesso è musica "colta", apprezzata e seguita da elites culturali europee e nordamericane.
Ci consola, rispetto agli appassionati di musica classica, il fatto che la tecnologia ci ha regalato la possibilità di poter ancora ascoltare i nostri brani preferiti direttamente eseguiti dai veri protagonastici di questa fantastica epopea.
Per chi come me, però, ha avuto la fortuna negli anni '70 di assistere qui in Italia a concerti dal vivo di artisti come Bill Evans, Cecil Taylor, Duke Ellington, Ella Fitzgerald, Charlie Mingus, Don Cherry, Miles Davis, Oscar Peterson, Ornette Coleman (solo per citare i primi nomi che mi tornano in mente) soprattutto nel corso dei mitici "Umbria Jazz" (concerti gratuiti ed itineranti collocati nello scenario delle più splendide località naturali ed artistiche di questa regione), piange veramente il cuore vedere al giorno d'oggi inseriti nei tabelloni delle manifestazioni jazzistiche nomi come Astor Piazzola, Joan Baez, James Taylor o Burt Bacharach: per carità, artisti di tutto rispetto e che stimo moltissimo ma che nulla o poco hanno obiettivamente a che fare con il jazz.
L'araba fenice non ha saputo più risorgere dalle proprie ceneri.
Trane (così gli ammiratori chiamavano Coltrane, giocando con l'assonanza della parola "train": inarrestabile come un treno che corre a tutta velocità) si impose sulla scena musicale, dopo qualche anno di gavetta in band minori, intorno alla metà degli anni '50, nel periodo cioè forse di massimo splendore del jazz, innalzandolo a livelli sublimi del tutto inimmaginabili e lasciando in pochi anni di attività (morì nel '67 a soli 41 anni) una traccia indelebile e forse definitiva nella storia di questo genere musicale.
Contemporaneo di artisti come Miles, Coleman, Cherry, Taylor, Rollins, Sheep e tanti altri con molti dei quali suonò insieme in concerti ed in jam sessions, Coltrane è contemporaneo e testimone di un'America, tanto per cambiare, estremamente complessa e contraddittoria: l'America "bianca", intrisa delle paranoie maccartiste e del Khu Khux Klan, l'America degli armamenti nucleari, della guerra fredda e di quella "calda" di Corea; "l'altra" America bianca, quella della "beat generation" di Kerouac, Ginsberg e Ferlinghetti, che già preludeva ed in qualche modo anticipava la grande esplosione libertaria degli anni '60; l'America "nera", ancora sottoposta a leggi e consuetidini oggettivamente razziste, che cercava faticosamente di alzare la testa per affermare la propria dignità di uomini, dando vita a movimenti che poi sarebbero sfociati da un lato nella protesta non violenta di Luther King, dall'altro nel sogno rivoluzionario di Malcom X e delle Black Panthers.
Il jazz è lo specchio di questi fermenti: dall'esperienza del Cool jazz si evolve nella musicalità aggressiva dell'hard, del modale fino ad approdare al free.Questo disco, e questo è un limite "oggettivo" di ogni antologia, può ovviamente dare solo parzialmente conto della produzione musicale di Coltrane.
Presenta infatti solo sette esecuzioni (ricordiamoci che le esecuzioni jazzistiche sono intrinsicamente lunghe): nel caso di questa artista, di cui nessuna esecuzione, a mio avviso, può essere considerata "minore", qualsiasi altra selezione si fosse fatta sarebbe stata allo stesso tempo legittima ed arbitraria.
I brani contenuti in quest'album sono i seguenti:
1 My Favourite Things
2 Mr.P.C
3 I Want To Talk About You
4 Naima
5 Stuff I'm Partial To
6 Traneing In
7 Man Made Miles
Di questo album vorrei indicarvi in modo particolare tre brani perchè rappresentano simbolicamente altrettante "anime", fra le tante, di Coltrane:
"My favourite things", il brano di apertura, forse l'esecuzione più nota di Coltrane, sicuramente quella che lo ha consacrato definitivamente come uno dei più grandi esecutori di jazz di tutti i tempi. Eseguito per la prima volta nell'album omonimo del '60, questo brano è stato poi riproposto in numerosi altri album successivi e in quasi tutti i concerti dal vivo del musicista.Opportunamente stravolto in chiave jazzistica, si ispira ad un waltz molto garbato che veniva cantato da Julie Andrews nel musical "Tutti insieme appassionatamente (ricordate la versione in italiano: "Tre son le cose che piacciono a me"?), e si compone soprattutto di lunghe ed ipnotiche improvvisazioni del suo sax soprano.La scelta di questo strumento, che non è lo strumento principale di Trane (che era solito suonare il tenore) permette al musicista di esprimersi con sonorità chiaramente ispirate alla musicalità araba e orientale (indiana in primo luogo). Si può dire che con questo brano inizia per Coltrane la ricerca delle sonorità "modali" che, negli anni a venire, caratterizzeranno più apertamente e direttamente il suo stile.



Il secondo brano è "Mr.P.C.", brano di chiusura dell'album "Giant Steps" del '59, il disco della "rivelazione": il brano, dedicato al contrabbassista Paul Chambers, di cui Coltrane ha sempre avuto grande stima ed ammirazione (tanto, appunto, da dedicargli un brano), venne definito dai critici "Blues supersonico". Qui troviamo il Trane-train, note stupefacenti e inaspettate in successione incredibile, suoni acuti e suoni bassi che si rincorrono con la stessa facilità (o complessità) di un piano, l'impressione che da un momento all'altro il sassofono esploda.
Il terzo brano è "Naima", sempre dell'album "Giant Steps". Qui troviamo il cosiddetto "gentle-side of John Coltrane": una ballata delicata e dolcissima scritta dallo stesso Coltrane e dedicata a Naima, nome arabo della sua prima moglie, in cui l'espressività musicale e la passione prendono il posto della complessità armonica.




Un album assolutamente da avere e da godere: note urlate, graffiate, accarezzate; passione. rabbia e spiritualità fuse magicamente nel delirio, nella trance e nell'estasi musicale di un genio della musica jazz

4 commenti:

prodotti&opinioni ha detto...

complimenti!

prodotti&opinioni ha detto...

un saluto, buon 8 dicembre!

Silvano Bottaro ha detto...

Avrebbe compiuto ottant'anni quest'anno Jonh Coltrane se quarant'anni fà non fosse andato incontro al suo avverso destino.
Uno dei più rivoluzionari jazzisti di ogni epoca, uno dei più grandi geni della musica del Novecento ci ha lasciato regalandoci dei capolavori sonori senza tempo.
Il suo pensiero musicale, colto e sincero, ha creato infinite scie di proseliti e di imitatori, ancora attivi sui più disparati palcoscenici del mondo.
Il passaggio breve ma intenso, di questo grande musicista, sulla scena del jazz ha marcato un profondo segno indelebile tra la musica degli anni cinquanta e quella degli anni seguenti: in appena un secolo di storia, il jazz si è trasformato da musica popolare in musica colta.
La sua spiritualità è una combinazione personalissima di tradizione religiosa occidentale e misticismo orientale. Le affascinanti contraddizioni dell'animo di Coltrane si sciolgono nella bellezza assoluta della sua musica.

(da un mio post) Ciao, ben trovato.

sauvage27 ha detto...

Spettacolare pagina jazz... , ..io entro il 2023 vorrei scrivere qualcosa sul be-bop... , ..mandi mandi ...Loris...